giovedì 25 dicembre 2014

"Il papà racconta" recensito da Legnano News

Il mio libro di favole, "Il papà racconta" è stato recensito da Legnano News. Ecco a voi il link:


http://www.legnanonews.com/news/1/44005/

Buon Natale.

Vito Foschi

sabato 20 dicembre 2014

I titoli delle fiabe del mio libro

Il drago starnutente
Il topolino bianco
Lo scoiattolo pigro
Le cavallette salterine
I maiali e i cinghiali
La fata golosa
Il nano pasticcione
Il Folletto Burlone
L’Elfo miope
Il fabbro felice
I monelli e la strega del mare
Il principe capriccioso

che potete acquistare dal seguente link:


http://www.lionmedia.it/shop/?prodotto=il-papa-racconta

mercoledì 10 dicembre 2014

Il mio secondo libro: Il papà racconta

Ho il piacere di annunciarvi la pubblicazione del mio secondo libro. Questa volta non mi occupo di politica, ma bensì di favole. Ispirate alla mia esperienza di papà e alla lettura serale di favole a mio figlio, vero motorre immobile di questo libro. Lo potete scaricare al seguente indirizzo:

http://www.lionmedia.it/shop/?prodotto=il-papa-racconta

Sicuramente un bel regalo di Natale per i più piccoli, ma anche per i grandi.

martedì 25 novembre 2014

L'irresponsabilità dei burocrati

La paura dell'arbitrio personale ha creato il desiderio di un potere impersonale, astratto e di conseguenza, illudendosi, giusto. Per forza di cosa la burocrazia è tortuosa, nebulosa e oscura. Serve proprio a rendere il potere quanto più impersonale possibile e a rendere i burocrati semplici esecutori di una volontà superiore e imperscrutabile e pertanto giusta. Con questi assunti i burocrati non possono che essere che deresponsabilizzati.

domenica 26 ottobre 2014

Stato e violenza


Quando si ragiona di politica, per quanto retorica si possa fare, si ragiona di come organizzare la violenza. La ricetta statalista prevede la concentrazione dell'uso della violenza in un unico soggetto monopolista entro un ben preciso territorio. Per quanto ci si possa sforzare per inventare e realizzare meccanismi di controllo di tale soggetto monopolista basati o meno sul consenso, rimane una sproporzione, un abisso incolmabile tra cittadino e stato: da una parte l'individuo indifeso dall'altra parte un potere senza limite e irrefrenabile.

martedì 21 ottobre 2014

Di nuovo online i miei articoli pubblicati sul LegnoStorto


Su LSblog, nella sezione Heri Dicebamus sono stati recuperati i vecchi articoli del LegnoStorto, tra cui i miei. E' sufficiente impostare come autore Vito Foschi nel form di ricerca.

http://www.lsblog.it/index.php/heri-dicebamus

Buona lettura!

domenica 19 ottobre 2014

Il diritto di resistenza nel catechismo della Chiesa Cattolica

Riporto due articoli del catechismo della Chiesa Cattolica che esplicano in maniera chiara il diritto di resistenza, ovvero del diritto dell'individuo a resistere al potere ingiusto. Ne parlo anche nel mio libro nel capitolo "I cattolici e il censimento". Per chi non lo avesse ancora fatto il libro è scaricabile dal seguente link:

http://www.lionmedia.it/shop/?product=piccolo-manuale-della-liberta


Catechismo della Chiesa Cattolica:

2242 Il cittadino è obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni delle autorità civili quando tali precetti sono contrari alle esigenze dell'ordine morale, ai diritti fondamentali delle persone o agli insegnamenti del Vangelo. Il rifiuto d'obbedienza alle autorità civili, quando le loro richieste contrastano con quelle della retta coscienza, trova la sua giustificazione nella distinzione tra il servizio di Dio e il servizio della comunità politica. “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” ( Mt 22,21 ). “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” ( At 5,29 ).

2243 La resistenza all'oppressione del potere politico non ricorrerà legittimamente alle armi, salvo quando sussistano tutte insieme le seguenti condizioni: 1. in caso di violazioni certe, gravi e prolungate dei diritti fondamentali; 2. dopo che si siano tentate tutte le altre vie; 3. senza che si provochino disordini peggiori; 4. qualora vi sia una fondata speranza di successo; 5. se è impossibile intravedere ragionevolmente soluzioni migliori.

Precisiamo che anche San Tommaso afferma: «Chi uccide il tiranno è lodato e merita un premio». 

domenica 5 ottobre 2014

Gli Ordini e la Manovra



pubblicato su "Il Legno Storto" il 15 luglio 2011;



di Vito Foschi

In questi giorni di turbolenze sui mercati con il differenziale fra Bund e Btp ai massimi, e con il rendimento dei Bot al 3,67% si è stati costretti ad approvare la manovra finanziaria in tutta fretta per evitare conseguenze ben peggiori. Un aumento dei tassi interessi oltre a causare un aumento dei costi di finanziamento del debito pubblico rischiando di vanificare gli effetti della manovra provoca il deprezzamento del valore dei BTP che debbono allinearsi al nuovo tasso. Questo aggrava i problemi delle banche italiane grande detentrici di BTP. Di fatto si troverebbero nella necessità di svalutare i titoli che hanno in pancia con le ovvie ripercussioni sul valore delle loro azioni. Insomma un effetto a catena dagli effetti quantomeno pericolosi.
In questo contesto si è inserita la discussione della finanziaria e dell’ormai famigerato emendamento che introduceva l’art. 39 bis che avrebbe abolito gli ordini professionali e liberalizzato il settore delle professioni. Questo emendamento ha scatenato l’ira dei parlamentari avvocati e notai appartenenti al Pdl che hanno minacciato di non votare la fiducia alla finanziaria se non veniva bloccato il famoso art. 39 bis. A loro si sono aggiunti i rappresentanti delle professioni minacciando scioperi e stracciandosi le vesti per il fatto di essere stati equiparati alle imprese. Su quest’ultimo punto, chiederei ai liberi professionisti se lavorano per la gloria e non per portare la pagnotta a casa come tutti gli altri uomini e donne.
Al di là di considerazioni sulla necessità o meno dell’abolizione degli ordini professionali, istituiti, non dimentichiamolo, dal regime fascista, ed il Tea Party si schiera apertamente con l’abolizione e per un sistema di libere associazioni in concorrenza fra loro, quello che colpisce è la difesa corporativa ad oltranza. Nella situazione di emergenza che stiamo vivendo in questi giorni, con il non tanto remoto rischio di default, colpisce l’ostinazione degli ordini che antenpogono i loro interessi personali a quelli del paese. Anche le opposizioni con tutti le giravolte del caso hanno in qualche modo offerto la loro collaborazione di fronte all’emergenza. Invece avvocati e notai di fronte all’emergenza cosa fanno? Minacciano di non votare la manovra. Siamo ragionevoli e quindi capiamo la difesa corporativa, ma di fronte al rischio di default, la cosa lascia sinceramente allibiti.
Infine l’emendamento è stato stralciato dalla finanziaria ripiegando su una più generica riforma da fare più in là e questo la dice lunga sul potere di interdizione degli ordini professionali. Questo fa nascere seri dubbi sulla reale possibilità di fare una riforma degli ordini professionali. Se di fronte al rischio default è prevalso l’interesse corporativo, in una situazione normale cosa potranno fare Parlamento e Governo? Ci si chiede se il Parlamento rappresenti veramente gli elettori o se sia solo una dipendenza degli ordini professionali, perché di fatto hanno dimostrato un’enorme potere di interdizione, in particolare avvocati e notai.
Considerato ciò, ci permettiamo di chiedere ai rappresentanti di tali categorie di far approvare un emendamento per una sforbiciata alle tasse, per l’eliminazione delle provincie ed infine, dato che le imprese fanno loro orrore, per privatizzare Eni, Enel, Finmeccanica, Poste e Rai.
Concludendo, questo emendamento è l’emblema della situazione italiana, dove il potere di interdizione delle lobbies blocca qualsiasi possibilità seria di riforma lasciando sprofondare il paese sempre più nella stagnazione economica e nei debiti.

sabato 27 settembre 2014

L'insorgenza antifrancese del Circeo

Vi segnalo questo mio lavoro pubblicato su LaCritica.org sull'insorgenza antifrancese nel Circeo:


Fra i vari eventi spesso trascurati a scuola o comunque trattati in maniera superficiale, vittime di una visione della storia come evoluzione lineare verso la modernità, c’è quello delle cosiddette insorgenze antifrancesi. Con il termine “insorgenza” si vuole descrivere quei fenomeni spontanei di ribellione alle autorità contrapponendosi a quello di rivolta che presuppone un’organizzazione e un intento politico...prosegue qui

domenica 7 settembre 2014

Italiani nella guerra civile americana



pubblicato su Archeologia & Cultura del 17 luglio 2011
 


di Vito Foschi

Le vicende che riguardano gli Stati Uniti d’America e il continente americano in generale ci sembrano lontane, spesso considerate solo ottimo sfondo per film e telefilm. In realtà, la presenza italiana nelle americhe è stata piuttosto massiccia, purtroppo figlia dell’emigrazione e le varie comunità di italiani hanno acquisito non poco peso nella storia di quei lontani paesi.
Una di quelle vicende che sembra lontana anni luce dalla nostra storia è la guerra civile americana, indubbiamente nota ai più attraverso svariati film, ma che vide combattere anche gli italiani in ambedue gli schieramenti e in qualche modo lambì anche Giuseppe Garibaldi.

Gli immigrati italiani furono reclutati sia a nord che a sud, ma la maggior parte era nel nord e così l’esercito dell’Unione poté costituire due unità di soldati italiani, la “Italian Legion” e la “Garibaldi Guards”. Situazione diversa per gli italiani arruolati nell’esercito confederato, in gran parte ex militari del Regno delle Due Sicilie. Il neonato regno d’Italia volle risolvere il problema dei prigionieri borbonici permettendo loro di arruolarsi nell’esercito confederato. Arrivarono in America con tre navi fra il dicembre 1860 e i primi mesi del 1861 e per ironia della sorte vennero inquadrati nella “Garibaldi Guards - Italian battalion Louisiana Militia”, che dopo le prevedibili proteste, nel 1862 cambiò nome diventando “Sesto Reggimento European Brigade”. Sarebbe stato il colmo, per uomini che avevano combattuto Garibaldi e pativano per lui la prigione, combattere in una formazione che portava il nome dell’Eroe dei due mondi. Curioso destino per i soldati borbonici, combattere in due eserciti perdenti e ambedue geograficamente del sud.

Gli italiani parteciparono a varie battaglie ed ebbero modo anche di battersi fra loro, quando le unità di italiani dell’esercito unionista e quelle dell’esercito confederato si scontrarono nella battaglia di Winchester nel settembre 1862 e in quel caso fu l’esercito del sud ad avere la meglio. Alcuni italiani si distinsero per valore, come per esempio il sergente John Garibaldi, di cui si conservano parecchie lettere e che fu seppellito nel cimitero di Lexington, assieme ai generali Lee e Jackson, due eroi degli stati del Sud.

Fra i morti italiani, purtroppo vanno inclusi due italiani vittime di un episodio simile a quello più noto di Sacco e Vanzetti. Per dare una lezione a possibili disertori, si pensò bene di arrestare cinque soldati a caso che non parlavano inglese, istituire un processo farsa e fucilarli. Fra questi furono presi anche due italiani, Giovanni Falaci, 26 anni e Giuseppe Rionese, 20 anni.

Un’ultima nota la dedichiamo a Garibaldi che fu invitato a guidare l’esercito nordista: l’uso del nome di Garibaldi in ambedue gli schieramenti fa intuire la notorietà del personaggio negli Stati Uniti. All’apertura dell’ostilità l’esercito dell’Unione subì una clamorosa sconfitta nella battaglia di Bull Run gettando nello sconforto la truppa. Il presidente Lincoln conscio di non avere ufficiali in grado di motivare le truppe pensò di mandare a chiamare Garibaldi, fresco reduce dell’impresa dei Mille. La causa del nord, con l’idea di abolire la schiavitù, poteva sollecitare l’eroe italiano, ma al di là della facciata, la guerra civile americana si combatté per ben altro. Per il nord, era l’idea di uno federazione centralista che limitava i diritti dei singoli stati, mentre per il sud era in gioco il diritto di ogni singolo stato di secedere dall’unione, prendendo alla lettera la dichiarazione di indipendenza del 1776:  “Queste Colonie Unite sono, e per diritto devono essere, Stati liberi e indipendenti…e come Stati liberi e indipendenti essi hanno pieno potere di fare la guerra, stipulare la pace, contrarre alleanze, stabilire commercio e compilare tutti gli altri atti che gli Stati indipendenti possono fare a buon diritto”. Probabilmente questo fu chiaro a Garibaldi e in qualche modo condizionò la sua scelta di non partecipare. Inoltre aveva chiesto al presidente Lincoln il comando in capo, cosa che ovviamente non gli poteva essere concesso.

domenica 10 agosto 2014

La festa continua alla Circoscrizione 9 di Torino



pubblicato su L'Elzevirista, 31 gennaio 2012



di Vito Foschi

Come molti di voi sanno il comune di Torino di dibatte in una marea di debiti a cui il sindaco Fassino cerca di metter mani con arzigogolate operazioni finanziarie cercando di mandare avanti la baracca senza rinunciare agli appetitosi posti dei consigli di amministrazioni delle controllate comunali. Ebbene, quando si esaminano le spese del comune ed in particolare delle circoscrizioni si scopre una realtà diversa trovandosi di fronte ad elargizioni di fondi come se nulla fosse. Il comune è pieno di debiti o è tutta una finzione? Eccovi un elenco di alcune delibere delle Circoscrizione 9:

Oggetto: C. 9 -  ART.42 COMMA 3 - INIZIATIVE NATALIZIE. APPROVAZIONE CONTRIBUTO ALLE ASSOCIAZIONI COMMERCIANTI  DI EURO 21.500,00.

Oggetto: C.9 - ART. 42 COMMA 2 - PROGETTO «FESTA DI  NATALE  2011». CONTRIBUTI ALLE ASSOCIAZIONI  «MONTEVIDEO» E «L`ANCORA» PER UN IMPORTO COMPLESSIVO DI EURO 2.400,00.

Doc. n. 100/2011
2011 06738/092
approvata il 01 dicembre
Oggetto: C.9 - ART. 42 COMMA 2 - "INCONTRIAMOCI A NATALE 2011". INIZIATIVA RICREATIVA DEDICATA ALLA FESTIVITA' NATALIZIA. APPROVAZIONE CONTRIBUTO DI EURO 12.300,00 ALL'ASSOCIAZIONE KAPPADUE. 

Doc. n. 99/2011
2011 06777/092
approvata il 01 dicembre
Oggetto:C.9 ART. 42 COMMA 2 -  "PROGETTO DI VALORIZZAZIONE DELLA CORORCHESTRA VIANNEY" (CONCERTI NATALIZI). CONTRIBUTO ALL'ASSOCIAZIONE DILETTANTISTICA POLISPORTIVA VIANNEY DI EURO 1.500,00.

Se si sommano tutte le cifre, i fondi totali dedicati alle feste di Natale 2011 è di ben 37.700,00. Insomma quasi quarantamila euro per le feste di Natale. Ma le finanze del comune non versano in cattive acque? È comprensibile che i politici pressati da richieste più o meno legittime di elettori e gruppi di pressione cedano alle lusinghe del classico feste, farina e forche, ma almeno in tempo di crisi sarebbe auspicabile un comportamento più responsabile e meno cedevole. Guardiamo quest’altra delibera:

Oggetto: C.9- ART. 42 COMMA 2- PROGETTO "DISTRIBUZIONE PASTI A PREZZO AGEVOLATO ALLE PERSONE ANZIANE O IN DIFFICOLTA'" - CONTRIBUTO ALL'ASSOCIAZIONE  POLISPORTIVA VIANNEY DI EURO 3.000,00.

Sicuramente un iniziativa encomiabile dare un pasto caldo a chi ne ha bisogno, ma è piuttosto stridente la differenza fra tremila euro destinati ai poveri e i quasi trentottomila destinati a feste e festini, in particolare in tempo di vacche magre. Non credo sia necessario aggiungere altro.

mercoledì 6 agosto 2014

La guerra tra Russia e Polonia (1919-1921) fu teatro dell’ultima battaglia combattuta con la cavalleria



Pubblicato su Archeologia & Cultura n.  del 7 novembre 2010

di Vito Foschi

La guerra, che nel 1919 oppose la Polonia alla nascente potenza sovietica, è uno di quegli avvenimenti che finiscono nel novero dei fatti minori, a volte trascurati nei manuali scolastici; ovviamente non tutti gli accadimenti hanno lo stesso peso nello svolgimento della storia e un percorso scolastico è per sua natura non esaustivo, però alcuni di questi meritano attenzione perché aiutano a comprendere meglio gli avvenimenti generali. Considerazione immediata è che la guerra sovietica-polacca rende palese che il trattato di Versailles, che pose fine alla I guerra mondiale, è abbastanza vacillante e contiene già i prodromi di quella che sarà la II guerra mondiale. Inoltre lo scontro sovietico-polacco rivelò al mondo la volontà imperiale della nascente Unione Sovietica e scatenò i realistici timori del resto d’Europa. L’idea di Lenin con il tentativo di invasione della Polonia era di raggiungere la Germania ove si svolgevano delle agitazioni di operai per poter esportare la rivoluzione bolscevica nell’Europa occidentale.
A volte riesce difficile capire la nascita di fenomeni complessi come fascismo e nazismo, ma che tra l’altro, hanno abilmente saputo sfruttare la paura del comunismo per quanto non si discostassero da quest’ultimo per volontà di potenza e brutalità e fu sicuramente gioco facile per i nazisti agitare lo spettro di un’invasione sovietica visto il precedente.
Anche l’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nazista, la famosa operazione Barbarossa, per quanto possa apparire sbagliato aprire un secondo fronte, poteva trovare ragione d’essere nella paura di una invasione sovietica e nel tentativo di prevenirla. Insomma un’applicazione del vecchio adagio: la migliore difesa è l’attacco; e d’altronde l’URSS nel frattempo si era presa mezza Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania e dichiarato guerra alla Finlandia.
Accenniamo agli avvenimenti della guerra sovietica-polacca e di come il giovane stato polacco senza gli aiuti delle altre nazioni europee riuscì a fermare l’Unione Sovietica. Questa clamorosa vittoria creò l’illusione nell’esercito polacco di poter fronteggiare con facilità gli eserciti sovietico e nazista.
La nazione polacca alla vigilia della I guerra mondiale risultava divisa fra gli imperi tedesco, austroungarico e russo. Con il crollo degli imperi si poneva il problema della “sistemazione” di quei territori appartenuti ai tre imperi. La pace di Versailles lasciò indefiniti i confini orientali della Polonia, non è chiaro se per un subdolo calcolo sul futuro politico della Russia. In caso di vittoria dei bolscevichi si sarebbe assegnato il massimo territorio possibile alla Polonia in funzione antibolscevica mentre in caso di vittoria dei bianchi le aspirazioni territoriale polacche sarebbero state ridimensionate. La situazione era piuttosto confusa, da un lato un confine incerto dall’altra una guerra civile ed in più le truppe tedesche che occupavano la zona orientale smobilitarono creando una pauroso vuoto di potere. Nell’ex impero russo la guerra civile fra comunisti e i cosiddetti bianchi volge a favore dei primi. In questa situazione incandescente scoppiò la guerra. Nel 1919 ci furono le prime scaramucce fra i due eserciti proprio per occupare quelle zone orientali senza più controllo. A questo punto la guerra può ancora essere evitata, ma i polacchi intercettano varie notizie su un piano di invasione sovietico. Una cosa è certa, la volontà dei bolscevichi di esportare la rivoluzione a livello mondiale in quel momento, per approfittare della debolezza degli stati europei prostrati dalla guerra appena conclusa. In ogni caso nel 1920 l’esercito polacco aiutato da un’armata ucraina lancia un’offensiva che raggiunge Kiev.
La reazione dei sovietici non si fece attendere e l’immensità del territorio russo e delle sue risorse fece sentire il suo peso. I sovietici spostarono a tappe forzate l’Armata a Cavallo e riuscirono a ricacciare i polacchi e i loro alleati arrivando alle porte di Varsavia. I polacchi offrivano una strenua resistenza all’esercito sovietico e riuscirono a contrattaccare: nel giorno del 15 agosto riescono a fermare l’esercito sovietico alle porte di Varsavia, mentre una seconda armata veniva sconfitta sulla Bassa Vistola. A fine agosto nella battaglia di Komarov, ultima grande battaglia di cavalleria della storia, sconfissero definitivamente i sovietici che iniziarono a ritirarsi.
L’inaspettata vittoria contro un esercito dotato di più risorse da parte della  nascente nazione polacca senza aiuti di altri stati europei e per le implicazioni religiose, venne considerato un miracolo e la battaglia di Varsavia fu soprannominata il miracolo della Vistola. In effetti, se la Polonia non avesse retto l’urto sovietico le armate comuniste sarebbero dilagate in Europa con l’appoggio dei vari partiti e movimenti comunisti nazionali; per questo e per le implicazioni già menzionate la guerra sovietico-polacco merita sicuramente di essere ricordata. Dopo una serie di scaramucce fra i due eserciti si firmò il tratto di pace il 20 ottobre 1921 e così si pose fine alla guerra sovietica-polacca. Un particolare curioso: nella Santa Casa di Loreto nella cappella polacca si può vedere l’affresco che testimonia la vittoria polacca.

domenica 13 luglio 2014

Il ritorno alla comunicazione scritta

pubblicato la prima volta sul sito de Il Genio Quotidiano il 10 lug 2012

di Vito Foschi

Alcuni anni fa prima della diffusione massiccia delle tecnologie informatiche quali i personal computer, i cellulari ed  Internet si vagheggiava e si temeva la scomparsa della scrittura a favore dell’uso esclusivo dell’oralità e dell’immagine, ma ad oggi ciò non è avvenuto. Si aveva paura che i nuovi mezzi di comunicazione quali il telefono avrebbero fatto scomparire lettere e telegrammi e di conseguenza l’abitudine a scrivere e più in là nel futuro, quando i mezzi l’avrebbero permesso, sarebbe scomparsa completamente la scrittura. Certo oggi, lettere e telegrammi stanno scomparendo, ma a favore di fax e mail e quindi sempre di testi scritti.
Il telefono fisso ha fatto temere la scomparsa della scrittura, ma il cellulare con i suoi SMS ha prodotto l’effetto opposto. Oggi i ragazzi scrivono molti messaggi al giorno. Qualcuno avrà da obiettare che chiamare scrittura il testo sgrammaticato e gergale dei SMS sia una follia, ma d’altro canto come lo si vuole chiamare? È comunque comunicazione scritta per quanto brutta possa essere ed in realtà il suo essere così brutta è dovuto ai limiti di lunghezza imposti dal testo e dalla scomodità nella digitazione. Probabilmente se gli SMS avessero una lunghezza maggiore di 160 caratteri assumerebbero una veste più comprensibile perché non sarebbero necessarie tante abbreviazioni. In fondo, le abbreviazioni delle lettere commerciali come u.s. o vs. non che siano così belle, senza dimenticare che l’uso di accorciare le parole è piuttosto antico quando la fatica di scrivere con penna e calamaio era notevole. Leggere un testo antico è praticamente impossibile senza conoscere le abbreviazioni in uso.
Oggi ci sono dei programmi che permettono di dettare e di ottenere un testo scritto e ci sono anche i programmi per non vedenti che fanno il processo contrario quindi esiste la tecnologia che permetterebbe di evitare la scrittura, ma credo che sia evidente che succede il contrario. L’introduzione del PC in ufficio con la facilità di modificare e correggere testi, di stampare infinite copie, non ha fatto altro che aumentare la produzione di testi scritti. Dopotutto è una questione pratica: se una cosa è gravosa cercherò di evitarla, ma se non mi costa fatica non avrò problemi a farla. Certo si può discutere sulla qualità di quello che si scrive, ormai impera il copia e incolla ad ogni livello, ma è indubbio che la produzione di testi scritti grazie al PC è cresciuta a dismisura; e nota negativa, anche lo spreco di carta.
Un altro uso aziendale ormai dilagante dovuto all’avvento delle tecnologie informatiche è quello delle presentazioni in Powerpoint. Non c’è riunione, convegno, presentazione in cui non sia proiettata una slide multimediale, come se la parola da sola non fosse più sufficiente, e fosse necessario appoggiarsi a qualcosa di scritto per renderla più efficace: anche se si devono dire due parole, una slide in Powerpoint deve essere proiettata.
Consideriamo adesso l’ultimo strumento di comunicazione di massa: Internet. Che cos’è Internet se non scrittura allo stato puro? In fondo il massimo della multimedialità di Internet è il filmato, ma per il resto è testo ed immagine, né più né meno di un qualsiasi codice miniato medievale. I tecnici che si occupano di migliorare i siti, affinché risultino fra i primi risultati nelle ricerche sui motori di ricerca, in sigla inglese SEO, sconsigliano animazioni e altre amenità simili; il più delle volte non interessano al navigatore ed anzi lo possono addirittura irritare perché va alla ricerca di informazioni e quindi di testo scritto e di concentrarsi su quello per attirare navigatori e migliorare la visibilità sui motori di ricerca.
Anche le chat, versione moderna delle chiacchiere, hanno trasformato un’attività puramente orale come le chiacchiere da bar in scrittura cambiando le abitudini di molte persone. Certo, scrivere un SMS non è scrivere una lettera e così la lettura su Internet è una lettura veloce, breve, che non si sviluppa su tempi lunghi e non facilita la concentrazione, ma questo è ben diverso dalla paventata scomparsa della scrittura e del ritorno della oralità come in un vecchio racconto di Isaac Asimov.
Consideriamo, infine, che esistono a fianco di videogiochi iperveloci anche quelli di strategia che hanno dei ritmi di svolgimento ben più lenti che inducono a riflettere sulle proprie ed altrui mosse. Questo ci può far ipotizzare che in qualche modo possano abituare alla concentrazione opponendosi ai tempi frammentati di Internet e della televisione favorendo una lettura più attenta e che si svolga in tempi lunghi.
Forse il tempo della scomparsa della scrittura non è ancora arrivato.

Una mia intervista

Ho il piacere di segnalarvi una intervista fattami da Luigi Angotzi per il blog The Road to Liberty:

http://roadliberty.blogspot.it/2014/07/intervista-vito-foschi-autore-del-libro.html

venerdì 4 luglio 2014

All’ombra della crisi piccoli liberali crescono

In questo vecchio articolo de Lo Spiffero del 2011 vengo citato.

tratto da Lo Spiffero di Sabato 01 Ottobre 2011 (http://www.lospiffero.com/buco-della-serratura/all%27ombra-della-crisi-piccoli-liberali-crescono-2250.html)

Sono i nipotini di Einaudi e Hayek e hanno in Ricossa il loro indiscusso maestro. Sotto la Mole un gruppo di giovani e brillanti studiosi professa (rinverdendola) la rivoluzione liberale: Stato minimo, privatizzazioni, meno tasse, meritocrazia

Colti e disillusi, brillanti ma per il momento in disparte, diffidenti verso ogni forma organizzata di politica politicante. Nei mesi della crisi globale, Torino riscopre grazie ad alcuni giovanissimi interpreti la propria vocazione liberale. Sono i pronipoti di Luigi Einaudi, ma il patrimonio genetico spazia da Thomas Jefferson a Milton Friedman, da Friedrich von Hayek ai concittadini Sergio Ricossa, Bruno Leoni e Enrico Colombatto. La loro bibbia è “La Rivolta di Atlante” di Ayn Rand e come John Galt rivendicano il diritto - e persino il dovere - di vivere perseguendo i propri interessi secondo quell’etica dell’«egoismo razionale» che assegna all’individuo fine e valore in sé. Si riuniscono in gruppi di discussione informali e poco strutturati, come il Tea Party - sulla scorta del movimento nato e affermatosi negli Stati Uniti – oppure Ora Liberale. Il motto è il medesimo per tutti: «Meno Stato, meno tasse, più libertà».

Si oppongono alla presenza sempre più invasiva dello Stato nella vita di ogni singolo individuo, lo "Stato massimo" un Moloch, il Leviatano hobbesiano che determina le regole e poi pretende di giocare la partita, spesso anche senza avversari, come nel caso dei tanti regimi monopolistici ancora esistenti, dai servizi pubblici alle sigarette. «Quando lo Stato diventa imprenditore esercita una concorrenza sleale nei confronti di chi imprenditore lo è davvero e rischia il proprio capitale, non quello della collettività» spiega Riccardo De Caria (nella foto a sinistra), 27 anni, alle spalle una laurea in giurisprudenza, un dottorato e un master alla London Scholl, ricercatore all'Università subalpina.

Affamare la bestia in modo da dare libero sfogo agli ancestrali animal spirits: meno Stato, più mercato, concorrenza, meritocrazia. «Il pubblico ha usurpato la comunità di ogni prerogativa: uccidendo le vecchie società di mutuo soccorso e tutti quei modelli associazionistici che si erano affermati tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900. A fronte di una tassazione sproporzionata offre dei servizi limitati e spesso inefficienti». A parlare è Domenico Monea, studente di medicina appena 22enne. E se gli si chiede quale possa essere la sua idea di welfare risponde: «Lo Stato oggi è la versione secolarizzata della religione. La gente si aspetta che si sostituisca a Dio e fornisca una risposta a ogni loro esigenza».

Sono in gran parte studenti o professionisti a inizio carriera, hanno un’età che varia tra i 20 e i 30 anni e, a differenza dei loro genitori (politici), non provano alcuna soggezione nei confronti delle ideologie egemoni che, seppur sbrindellate, vanno per la maggiore tra i coetanei. Comunicano attraverso internet, molti di loro hanno già vissuto esperienze lavorative o formative all’estero, come Giovanni Boggero, tra i fondatori, con De Caria, di Ora Liberale e collaboratore del giornale on line Linkiesta, attualmente a Berlino per un dottorato. Hanno vissuto esperienze più o meno travagliate nelle giovanili di partito - dall’Italia dei Valori al Pdl - tutti, però, ne sono usciti, persuasi del fatto che «oggi nessuno è in grado di rappresentare queste istanze» spiega uno dei coordinatori del Tea Party torinese, Vito Foschi. Concordano nel definire l’ultima Finanziaria, lontanissima da ciò che loro professano («abolizione degli ordini professionali, liberalizzazione dei servizi pubblici, dismissione da parte dello Stato e degli enti locali di società e imprese nelle quali detengono delle partecipazioni, sburocratizzazione della pubblica amministrazione, taglio della spesa pubblica, abbattimento delle tasse e misure per favorire la libera imprenditoria») e non escludono un default imminente per l’Italia: «Il che non è detto sia una cattiva notizia – riflette Niccolò Viviani (foto in alto a destra), 22 anni, futuro ingegnere gestionale, considerato un enfant prodige –. Anzi, potrebbe essere l’unica via per rifondare la nostra nazione su presupposti nuovi».

sabato 28 giugno 2014

Salario minimo e tariffe professionali




pubblicato su Il Legno Storto del 30 gennaio 2012


di Vito Foschi

Con il decreto sulle liberalizzazioni del governo Monti, ventilato come capace di impennare il PIL a due cifre, viene abolita la possibilità degli Ordini professionali di definire delle tariffe anche non vincolanti. Dubitiamo fortemente che l’apertura di qualche farmacia in più e qualche incarico a tariffa ribassata per i liberi professionisti possa far aumentare il PIL in modo significativo. Tornando al discorso principale, l’intervento più importante sulle tariffe professionale fu l’abolizione dei minimi in seguito al famoso decreto conosciuto come “le lenzuolate” di Bersani e anche allora venne presentato come fautore di crescita economica e di vantaggi per i consumatori. Sussiste, tuttavia, il sospetto che il vero motivo del decreto non fosse la volontà liberalizzatrice, ma piuttosto un mero calcolo elettorale, colpendo quelli che nell’immaginario finto-proletario sono dei privilegiati: l’invidia sociale usata come strumento di governo nel più classico divide et impera.
Oggi, con l’inflazione di laureati nelle varie discipline è più facile trovare un avvocato o un ingegnere rispetto a un idraulico o a un operaio specializzato e visto che la legge della domanda e della offerta è inesorabile come la legge di gravità, i guadagni sono di conseguenza. Al di là di queste considerazioni sull’invida come motore più potente della razionalità, come liberali non possiamo non essere favorevoli all’abolizione dei minimi, ma aggiungendoci l’abolizione degli ordini tout court facendo nostre le considerazioni di Milton Friedman esposte nel suo bel libro Capitalismo e Libertà.
Per amore di precisione confesso di essere iscritto ad un ordine e quindi di essere un po’ in conflitto di interressi con me stesso, però questo mi permette di offrire una riflessione diversa. Sono un ingegnere informatico e l’informatica è materia non regolamentata quindi l’iscrizione all’ordine è del tutto inutile ed anzi è una tassa in più da pagare ogni anno. Risulterebbe più utile pagare, per esempio, un’associazione che organizzasse un paio di cene di lavoro all’anno. Diciamo ciò, perché a volte sembra che gli ordini siano tutti uguali, o comunque degli organismi dotati di chissà quali poteri e privilegi da dispensare agli iscritti. Se pagare per non avere nulla in cambio si possa definire un privilegio…
Vorrei però affrontare il problema delle tariffe in termini più generali astraendo dalle contingenze storiche per poter fare un ragionamento più razionale possibile. Le tariffe rappresentano sicuramente un ostacolo alla concorrenza rappresentando un’ingiustizia per chi pur di lavorare, sarebbe disposto a guadagnare di meno e un danno per i consumatori. Oltre a ciò, con i prezzi più bassi le persone che hanno la possibilità ad accedere ai servizi professionali sarebbero in numero maggiore allargando il mercato. Proviamo, però, ad affrontare il problema da un diverso punto di vista. Le tariffe non sono altro che il guadagno del libero professionista, che essendo sostanzialmente un lavoratore intellettuale non impiega né materie prime né impianti. In qualche modo eccetto il vincolo di dipendenza, che attualmente, visto le condizioni di mercato, è per assurdo più vincolante per il libero professionista che per il dipendente, potrebbe essere paragonato ad un lavoratore qualsiasi. Le tariffe, in breve, possono essere paragonate ai salari di tutti gli altri lavoratori. E qui nasce un assurdo. Se le tariffe sono una sorta di salario, se aboliamo le tariffe minime non dovremmo abolire il salario minimo? Tanto più, che attualmente un libero professionista, ha ben poco potere contrattuale nei confronti del cliente e probabilmente il dipendente si trova in una situazione di forza maggiore. Capovolgendo il discorso, se un dipendente deve guadagnare un giusto compenso e questo viene deciso dalla contrattazione collettiva perché ciò non deve sussistere per i liberi professionisti? Tra l’altro i lavoratori hanno alle loro spalle sindacati e partiti, mentre i liberi professionisti solo la loro forza professionale e nulla più: se lavorano possono mangiare, altrimenti finiscono sotto i ponti. Considerato che i professionisti non hanno né cassa integrazione, né disoccupazione, né rimborsi per il lavoro non svolto a causa di malattie, non mi sembrano che siano così privilegiati; anzi, molti giovani professionisti cambierebbero la loro condizioni con quella di un qualsiasi dipendente. Non si capisce con quale criterio logico si chieda l’abolizione delle tariffe minime a fronte di una sostanziale imposizione di salari minimi; se tariffe e salari non sono altro che il compenso del lavoro di una persona, non si capisce perché questa pesante discriminazione. Da un certo punto di vista, ciò potrebbe dare ragioni a molti professionisti che richiedono maggiori tutele e il ripristino delle tariffe minime, che non farebbero altro che renderli simili a tutti gli altri lavoratori. Simili, ma non uguali perché rimarrebbe sul loro groppone sempre il rischio di impresa. Chiaramente questa è un’impostazione sindacale, forse anche scusabile da parte dei professionisti, che oltre a vedersi decurtati i guadagni dall’eccesso di offerta si vedono anche bistrattati dalle leggi e volendo essere ripetitivi solo per invidia sociale. Quindi ripristiniamo i minimi tariffari? Certamente no, la soluzione è ben altra ed è quella liberale: abolire sia i minimi salariali, sia i minimi tariffari. In una società libera, i monopoli legali e gli ostacoli legali alle libere scelte delle persone dovrebbero essere aboliti. Sfugge alla comprensione il motivo per cui è giusto che un libero professionista possa lavorare per una cifra inferiore a quella delle tariffe minime, mentre un dipendente non possa accettare una stipendio inferiore al minimo. Qual è la differenza? Da un lato si predica la concorrenza per i professionisti e poi si pongono ostacoli per i dipendenti. Consideriamo anche che, fortunatamente, la fantasia umana non ha confini e tariffe minime e minimi salariali vengono aggirati. Chi propone l’abolizione delle tariffe minime dovrebbe di converso chiedere l’abolizione dei salari minimi. Se è ingiusta una cosa è ingiusta l’altra. Se le tariffe minime sono una barriera all’entrata per i giovani professionisti, i salari minimi sono una barriera all’entrata per i giovani lavoratori, con la sostanziale differenza che le tutele per i dipendenti non hanno confronto con le inesistenti tutele dei liberi professionisti. Curiosamente, chi continuamente mena per aria la costituzione, di fatto, si prodiga  per la nascita di pesanti discriminazioni, creando robuste gabbie fra chi lavora, da cui ognuno guarda in cagnesco il vicino racchiuso in diversa gabbia. La legge è uguale per tutti o solo per chi ci è simpatico?

sabato 14 giugno 2014

Uno dei tanti esempi degli sprechi del comune di Torino

di Vito Foschi (pubblicato sul blog Elzevirista nel 2012)

Spulciando fra le varie delibere delle circoscrizioni torinesi ci siamo imbattuti in quella della circoscrizione 9 che nel dicembre del 2010 organizzava una festa di Natale con ingresso gratuito per 1000 persone. Ci si chiede quale era la finalità sociale di tale iniziativa. Non stiamo parlando di una festa per gli anziani soli o per i poveri, ma una festa a cui potevano accedere tutti, voi o io compresi. Mi si vuole spiegare a che scopo tutto ciò? Quei soldi non era meglio utilizzarli per pagare un bel pranzo e un bagno caldo ai tanti barboni della città? O spenderli per l’assistenza agli anziani non autosufficienti? L’iniziativa sa tanto del motto borbonico: festa, farina e forca. Volete sapere quanto è costato tutto ciò? 14000 euro, come da delibera Doc. n.95/2010 - 2010 07580/2010 approvata il 1 dicembre 2010. Un’ultima chicca: i 14000 euro erano a copertura parziale. Peccato che il contributo richiesto era di 15.816,00, quindi la copertura cosiddetta parziale arrivava a ben l’88,5%. Non male per essere parziale. Inoltre la circoscrizione ha messo a disposizione anche tavoli, sedie e il palco per il complesso musicale. C’è da dubitare quando un’amministrazione pubblica si lamenta per mancanza di fondi.

venerdì 30 maggio 2014

Due commenti al "Piccolo Manuale della Libertà"

"Una chicca. Una serie di brevi capitoli trattano i tanti temi attorno alla libertà in modo rapido e piacevole. Finito un capitolo si passa al successivo con la curiosità di vedere cosa c’azzeccano con la libertà Bud Spencer e Terence Hill, alcuni vecchi serial televisivi , Pippi Calzelunghe. Anche gli ambiti più classici per analizzare il tema della libertà quali il cristianesimo, la “legge” e l’etica sociale, l’ecologia (le risorse della terra) sono affrontati con brevi capitoletti pieni di osservazioni precise e efficaci. Credo veramente che nessuno abbia il diritto di privarsi di un paio d’ore di questa stimolante lettura"


Ettore Malpezzi (autore di Padri di una Patria)

"L'aperilibro del Club di Creativi non è mai banale e non è mai pesante ... ma poter pensare che si potesse parlare di politica, società e civiltà passando dai film di Bud Spencer a quello di Don Camillo e Peppone con strette relazioni con Bibbia e Vangelo fino ai cartoni animati mi sembra tuttora incredibile ... per cui un immenso applauso a Michele Fossati che nel suo giorno del compleanno ci ha fatto conoscere Vito Foschi l'autore di cotanta opera che si può scaricare da internet"

Marco Barbagelata proprietario dell'Ovocenter di Novi Ligure

Scarica da qui

giovedì 22 maggio 2014

Gli illusionisti della politica



Pubblicato su “Il legno Storto” del 7 settembre 2011

di Vito Foschi

Da un po’ di tempo si fa un gran parlare dei costi della politica e ci permettiamo una considerazione in qualche modo tecnica e una provocazione. Molte delle proposte si concentrano sulla riduzione di qualche voce di costo, con qualche aneddoto poco edificante come la spigola offerta al prezzo di una portata da mensa aziendale. Lo svantaggio di tutte queste iniziative è che semplicemente non risolvono il problema. Sono un utile diversivo, un modo per dare un contentino ai cittadini, ma senza intaccare il grosso della spesa. Questo avviene per un semplice e banale motivo che si spiega con un esempio: ridurre del 10% una voce di costo pari al 10% del totale del bilancio, significa ridurre i costi dell’1%. Il 10% del 10% è proprio l’1%. Cambiando le percentuali il risultato non cambia di molto. Anche riducendo del 10% il 50% del bilancio totale, si riduce la spesa totale del solo 5%. Altro esempio: ridurre del 50%, evidentemente una percentuale importante, una voce di spesa pari al 10% totale, significa sempre ridurre la spesa totale del 5%. Capite bene, che queste percentuali abilmente comunicate, possono far credere che ci siano dei tagli drastici. Immaginate la riduzione del 50% dei costi di ristorazione. Sembra tanto, ma di fatto la riduzione complessiva è ben modesta. L’unico modo per ridurre i costi della politica, a parte il tagliare un po’ di teste come starà pensando qualche lettore, è la drastica riduzione del numero dei politici, dai parlamentari fino più giù, ai consiglieri di circoscrizione. Immagino per i parlamentari una riduzione di almeno il 50%,  con una vera riduzione dei costi e con altri benefici effetti collaterali. Per amore di precisione la riduzione dei parlamentari dai 945 a circa 480 non comporterebbe un’automatica riduzione del 50% del costo totale, ma di meno, per ovvie spese generali che non diminuiranno e perché molti impiegati ormai diventati inutili non saranno messi subito sul lastrico. Oltre a questo taglio, si dovrebbe procedere comunque all’eliminazione di quelle voci odiose che fanno giustamente incavolare i cittadini. In tutta onestà, alcune cose non si riescono proprio a capire. Per esempio, è facile capire le agevolazioni per i trasporti perché si spera che ogni tanto l’onorevole o il senatore si sposti da Roma e torni nel collegio di elezione per mantenere il tanto decantato contatto con il territorio. Altre cose non si capiscono, come per esempio l’avere a disposizione un ristorante. A che serve? Non ci sono ristoranti o tavole calde nei pressi di Camera e Senato?
Oltre alla riduzione dei costi, ci sarebbe un ulteriore e non trascurabile vantaggio che molti non considerano. Con il dimezzamento del numero dei parlamentari si può sperare in una maggiore efficienza dei processi decisionali con la riduzione del problema dei cosiddetti peones, ovvero dei parlamentari sconosciuti o quasi senza un preciso ruolo che vanno a costituire una sorta di parco buoi non sempre docile ai voleri dei maggiorenti dei partiti. La gran parte del lavoro si fa in commissione, e chi non ne fa parte, sostanzialmente, si trova tagliato fuori dai giochi. Se consideriamo gli avvenimenti politici dell’ultimo anno con la migrazione di tanti parlamentari da un gruppo ad un altro, potete ben capire che riducendosi il numero, questi episodi diventano meno consistenti. Qualunque cosa si possa pensare delle “migrazioni parlamentari”, bisogna ammettere che si tratta di un modo come un altro per cercare visibilità da parte dei peones. Prima del 14 dicembre chi conosceva il roboante On. Scilipoti? Se eliminiamo 500 parlamentari quante migrazioni ci possono essere? Ma non solo. Il problema è molto più semplice. Meno persone ci sono, più è facile coinvolgerle nei processi decisionali riducendo il numero degli esclusi, che a volte si vendicano trasformandosi in “franchi tiratori”.
Riassumendo le varie considerazioni, la riduzione dei parlamentari è l’unico modo per ridurre in maniera sensibile i costi del Parlamento con un suo conseguente migliore funzionamento.
Chiudiamo con una provocazione. È proprio opportuno ridurre le prebende dei parlamentari? Preciso che non parlo dei privilegi smaccatamente ingiusti, ma del semplice stipendio. Normalmente le aziende private si disputano i manager migliori o presunti tali, a suon di aumenti di stipendi o bonus vari, senza arrivare all’esempio dei calciatori dove i campioni vanno letteralmente all’asta. Diminuire lo stipendio dei politici può attrarre i migliori? Certo non è un lavoro come un altro, ma razionalmente si può pensare di fare il parlamentare per 1500-2000 euro al mese? Chi si trasferirebbe a Roma per quella cifra e per pochi anni? Ci sono disoccupati che preferiscono rimanere nel loro stato pur di non cambiare città. Certo, bisogna riconoscere che nonostante gli attuali forti incentivi non sempre sono stati i migliori ad essere selezionati, anzi il panorama odierno sembra mostrare che la selezione in politica funzioni al contrario: non viene premiato il merito, ma il suo contrario. Stando così le cose, domando, una riduzione degli stipendi potrà migliorare la situazione o peggiorarla? E la carriera politica potrà non attrarre i senza scrupoli interessanti più al potere di intermediazione della stato e non alla buona amministrazione?

lunedì 12 maggio 2014

Tornare ad occuparsi della realtà: articolo 18 e partite IVA fittizie



Un mio vecchio articolo pubblicato su Lo Spiffero del 11 Maggio 2012 (http://www.lospiffero.com/ballatoio_stampa_432.html)


Quando la scorsa estate si ventilava il superamento dell’articolo 18, avevamo scritto di come i sindacati pensano ed agiscono come se vivessero in un mondo parallelo che in nulla coincide con la realtà. Ora abbiamo la cosidetta riforma del ministro Fornero che si pone nella stessa linea di irrealtà. A parte il pasticcio sul famigerato articolo 18 che francamente troviamo assurdo, la legge sulle partite IVA fittizie è veramente qualcosa di incredibile: può essere pensata solo da chi non conosce il mondo del lavoro.
Bisogna precisare, innanzitutto, che l’articolo 18 si applica alle imprese con più di 15 dipendenti e già questo non si capisce: il lavoratore della piccola impresa è un cittadino di serie b? In Italia patria delle piccole imprese, il famoso articolo si applica a ben poche persone e nella pratica ancora meno di quanto dicono le statistiche. Le grandi aziende in realtà non hanno problemi ad attuare licenziamenti di massa. Vi dice niente la parola esodati? Rimanendo nella cronaca locale, Intesa San Paolo ha mandato via un bel pò di dipendenti senza tanti problemi. Lo stesso De Benedetti ha dichiarato di non aver avuto problemi a licenziare. Facendo due conti, l’articolo 18 si applica alle medie imprese non sufficientemente grandi da aver un forte potere contrattuale. Tutto questo baillame per una percentuale minima dei lavoratori? E poi perchè le medie imprese debbono avere una legge diversa dalle altre? Sarà questo uno dei motivi che impediscono alle imprese di diventari grandi? Ciò può spiegare perchè alle grandi imprese non interessa molto dell’articolo 18; spiega perchè sia stato possibile un accordo fra Confindustria e i sindacati per sterilizzare l’articolo 8 della finanziaria del precedente governo che in qualche modo superava il blocco dei licenziamenti. In fondo, alle grandi imprese, fa comodo che alle medie venga impedito di crescere, in modo da non avere concorrenti.
Tornando alle partite IVA fittizie, trovandomi in quelle condizioni, un brivido mi ha percorso la schiena. Fortunatamente fra i tanti errori che si commettono nella vita mi ritrovo iscritto ad un ordine e la riforma non riguarda i professionisti e ho tirato un sospiro di sollievo. Qualcuno si chiederà se sono impazzito a preferire la precarietà alla stabilità. Purtroppo solo chi non conosce la realtà può pensare che una simile riforma possa portare alla stabilizzazione dei precari. Nella realtà ci sono imprese senza dipendenti e con soli collaboratori a partita IVA ed a progetto. Si può ragionevolmente pensare che una ditta possa assumere decine di dipendenti in un botto? O che grosse aziende che subappaltano il lavoro a microimprese abbiamo problemi a fare girare i fornitori di sei mesi in sei mesi? Solo se vogliamo credere alle favole possiamo pensare ciò. Tra l’altro, esistendo il subappalto del subappalto, è sufficiente far roteare gli ultimi anelli della catena per rispettare formalmente la legge e il collaboratore continuerà a svolgere lo stesso lavoro per anni. Il cliente finale chiaramente non si accorge di nulla e vede solo che la persona che desidera è sempre dove vuole lui. In più, in alcuni campi come quello informatico effettivamente si lavora su progetti eccetto per la manutenzione di applicativi esistenti. Fra i miei colleghi la paura è stata di diventare ancora più precari: finora si poteva sperare in contratti annuali, ora grazie alla Fornero non si può sperare oltre i sei mesi. Considerato che i contributi sui contratti a progetto sono maggiori potrebbe sembrare un modo surrettizio di trasformare le partite IVA in contratti a progetto per incrementare le entrate contributive e tenere in sesto i bilanci dell’INPS.
Tra gli effetti non desiderati, chi si trova ad iscritto ad un ordine, non sottostando alle nuove norme capestro, potrebbe acquisire un vantaggio su tutti gli altri lavoratori. Le aziende preferiranno un iscritto, che possono utilizzare senza il rischio di doverlo assumerlo, rispetto ai non iscritti. È giusto e desiderabile? Non è una distorsione del mercato? Con tutta sincerità al prossimo colloquio lo farà pesare. Non mi sembra giusto anche se mi agevola.
Come liberale vorrei che gli Stati si occuppassero di giustizia, esercito, polizia e in maniera limitata di opere pubbliche, purtroppo, invece, politici, sindacalisti e affini si intromettono pesantemente nelle nostre vite. Dato che ciò dembra inevitabile è lecito pretendere che conoscano la realtà di ciò che si occupano? Conoscere per deliberare diceva un famoso piemontese e non deliberare per conoscere.

mercoledì 12 febbraio 2014

Piccolo Manuale della Libertà - Il mio primo libro

Con immenso piacere vi annuncio l'uscita del mio primo libero che si occupa di divulgare un po' di idee sulla libertà. Vi invito a comprare più copie così da pogerle regalare ad amici e parenti. Per ogni vopia venduta un euro andrà al Tea Party Italia. Eccovi il link:

http://leolibri.it/content/piccolo-manuale-della-libert%C3%A0

E una breve presentazione:


Questo libro è un esempio di divulgazione che riesce a tenere insieme approfondimento, rigore, semplicità e concretezza. L’autore non si tira indietro, da una parte, rispetto a tematiche economiche ed etiche complesse, usando dall’altra sempre esempi quotidiani, concreti, comprensibili a tutti, in molti casi anche estremamente divertenti e leggeri.Il primo impatto del lettore con le tematiche della libertà economica, del mercato, della concorrenza, dell’importanza dei diritti di proprietà, è quanto di più “soft” e meno traumatico si possa immaginare: l’autore fa iniziare infatti questo viaggio con un excursus tra “favole moderne”: film per famiglie, serie tv di culto, addirittura cartoni animati. Come spiega lui stesso: “Non c’è nessuna forma di snobismo alla rovescia, ma solo un’osservazione pratica. Per quanto si possa fare alta teoria, liberalismo e libertarismo sono dottrine dettate dal buon senso. Alla fine trovano la loro vera ragion d’essere nella realtà. E la realtà la capiscono tutti, come un film di Bud Spencer e Terence Hill.”

domenica 9 febbraio 2014

Il vizio dello sperpero


(pubblicato sul Legno Storto del 10 novembre 2011 e su Lo Spiffero)

di Vito Foschi

In questi giorni convulsi con un governo dimissionario e lo spread alle stelle si riaffaccia prepotente l’ipotesi di una patrimoniale per poter sanare l’annoso problema del debito pubblico. Decisione che si vuole affidare ad un qualche governo d’emergenza tecnico o istituzionale per svincolare i partiti che non si riterrebbero responsabili della rapina degli italiani. Sinceramente riesce difficile capire il vantaggio di una misura tampone come la patrimoniale, abbiamo avuto quella del governo Amato, ma non ha portato molto fortuna. Sono passati meno di venti anni, ma il problema non è cambiato. Il debito pubblico non è la causa dei problemi, ma la conseguenza più evidente del vero problema italiano: la spesa pubblica. E lì che si annidano i problemi dell’Italia sia in termini quantitativi che qualitativi.
Voi paghereste i debiti di chi ha il vizio del gioco? Sicuramente no o meglio sareste disposti a farlo solo dopo che vi foste assicurati che il giocatore abbia perso il vizio. È evidente che continuando a giocare il debito si riformerebbe in brevissimo tempo, anzi più velocemente di prima, tanto c’è qualcuno che paga. Oltre il danno la beffa. Per il giocatore incallito il pagamento dei debiti non sarebbe altro che un ulteriore incentivo a sperperare. Trovereste il tutto decisamente ingiusto. Ebbene, la situazione dello stato italiano è esattamente come quella della persona dominata dal vizio del gioco. La patrimoniale abbatterebbe il debito, dando un po’ di respiro ai conti dello stato, ma in breve tempo tornerebbero alla situazione attuale con il debito alle stelle. Il problema da cui nasce il debito, come detto, è la spesa pubblica. L’abbattimento del debito sarebbe un incentivo ad aumentarla e non a diminuirla. Non dimentichiamo che l’altra faccia della spesa pubblica è il prelievo fiscale. Visto che i soldi non crescono sugli alberi, come sanno anche i bambini che hanno letto Pinocchio, le spese dello stato non sono altro che i soldi prelevati coattivamente dalle tasche dei cittadini. Questo è il primo danno di una spesa pubblica fuori controllo, la compressione della capacità di spesa e risparmio del cittadino a favore dell’entità statale.
Quello che dovrebbe fare un qualsiasi governo in carica è abbattere la spesa pubblica, prima di pensare alla patrimoniale. L’altro danno di una spesa pubblica fuori controllo è quello che abbiamo indicato come aspetto qualitativo. La spesa pubblica oltre a sottrarre ingenti risorse dai redditi dei cittadini, distorce le scelte degli operatori economici causando un’allocazione non ottimale delle risorse economiche. Detto in altri termini, se un imprenditore sa che potrà guadagnare un sacco di soldi vincendo un appalto pubblico, si occuperà di quello e non di creare un impresa che stia sul mercato. E non nascondendoci dietro ad un dito, quella spesa genera corruzione e malaffare. Come speriamo di competere sui mercati internazionali, se i nostri imprenditori sono più impegnati a intercettare qualche rigagnolo di soldi pubblici, che a lavorare per rendere produttiva l’impresa? Ma non solo la corruzione. Lo stato per spendere i soldi devo crearsi una qualche giustificazione e quindi deve creare una legislazione apposita. Più leggi, più si ingessa il mercato, più si complica la vita del cittadino. Si creano uffici inutili, con personale inutile a cui bisogna inventare qualcosa da fare e così si crea un qualche modulo da far compilare al suddito-cittadino. Alla fine il cittadino paga per essere vessato dallo stato. E da lì che bisogna partire per abbattere la mostruosità del debito pubblico. Riducendo la spesa pubblica, si potrà ripagare il debito accumulato e in più si darà slancio all’economia perché si semplificherà la vita di imprese e cittadini. Gli imprenditori dovranno tornare a occuparsi delle loro imprese, invece che di preoccuparsi di come intercettare denari pubblici. A quel punto si potrebbe anche pensare a ridurre finalmente le tasse che sarebbe il miglior modo di aiutare i cittadini.
Qualcuno potrebbe pensare ad un discorso troppo teorico, ma si possono tranquillamente indicare alcuni provvedimenti concreti quali l’abolizione di province e circoscrizioni, riduzione del numero dei parlamentari e dei consiglieri regionali e comunali, abolizione di qualsiasi forma di incentivo sia fiscale che finanziario alle imprese compresi gli incentivi alle rinnovabili, affidamento a privati dei servizi pubblici locali, liberalizzazione di ferrovie e trasporto locale, abolizione degli ordini professionali e privatizzazione delle relative casse di previdenza, privatizzazione di INPS ed INAIL e così via. Senza parlare dei tanti enti inutili. È sufficiente spulciare l’elenco di nomine pubbliche di regioni, province e dei comuni sufficientemente grandi per trovare di tutto. Dall’ente per la tutela di qualche specialità gastronomica, all’associazione per lo sviluppo tecnologico il cui unico compito è scrivere un paio di relazione all’anno, a quella per la tutela di non si sa bene che cosa. Tutti organismi che hanno una sede, una segreteria e degli amministratori retribuiti. Organismi che non si sa bene cosa facciamo, ma senza giri di parole, servono sicuramente ad accontentare il politico che non ce l’ha fatta o il supporter che ha portato voti.

sabato 1 febbraio 2014

Il massacro di Katyń


Pubblicato su Archeologia & Cultura del 25 settembre 2011

di Vito Foschi

La località di Katyń è attualmente nota al grande pubblico per l’incidente aereo in cui hanno perso la vita il presidente della Polonia insieme a ministri e parlamentari, ma pochi sanno il motivo per cui il cospicuo gruppo di  politici si recava in tale luogo.
Katyń è una foresta nei pressi di Smolensk, in Russia, scenario di un cruento fatto di sangue: qui all’inizio del 1940 furono uccisi e seppelliti circa 22000 militari polacchi, prigionieri sovietici dopo la spartizione della Polonia fra Germania nazista e Unione Sovietica. La Polonia, fu il classico vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. I sovietici con il massacro speravano di eliminare in un colpo solo la classe dirigente polacca, la gran parte erano ufficiali della riserva che nella vita erano professionisti, dirigenti, intellettuali, attuando una sorta di pulizia di classe. Ma al di là della crudeltà del massacro, si istituì una squadra di massacratori professionisti addestrata per uccidere le persone con un singolo colpo di pistola in una precisa zona della nuca, quello da raccontare è il velo di oblio che calò sulla tragedia in seguito al ritrovamento delle fosse comuni.
Nel 1941 in seguito all’attacco tedesco all’Unione Sovietica, polacchi e russi non erano più nemici, ma alleati e in questo nuovo quadro il generale Anders cercò di informarsi dei suoi commilitoni prigionieri in Russia, anche nell’ottica di formare un esercito polacco da affiancare agli alleati. Le risposte di Mosca furono evasive, non potendo ammettere il massacro. Nel 1943, i tedeschi, in seguito all’invasione dell’Urss scoprirono le fossi comuni; fino ad allora non si conosceva il destino dei militari polacchi prigionieri in Russia. Da quel momento si tentò di insabbiare tutto.
I tedeschi cercarono di formare una commissione d’inchiesta internazionale, ma gli alleati per non irritare l’alleato sovietico si opposero. Allora i nazisti formarono una commissione come poterono, coinvolgendo la Croce Rossa ed appurarono le colpe dell’Urss. Gli alleati continuarono a negare l’evidenza.
Al di là del fatto contingente di non irritare un alleato, la faccenda si colorì di sfumature ideologiche. Per motivare l’opinione pubblica si era dipinto il nazismo come il male assoluto; cosa sarebbe successo se si fosse scoperto che l’alleato sovietico agiva come né più né meno dei nazisti?
Indubbiamente era necessario mantenere l’alleanza per sconfiggere i tedeschi, ma come era necessaria l’Unione Sovietica per gli Alleati, altrettanto importante erano per i sovietici gli Alleati in particolare per la fornitura di viveri e di armi. Forse un qualche spazio di manovra poteva esserci,  però gli Alleati preferirono tacere.
Il comportamento di Churchill fu dettato da semplice pragmatismo, anche se dopo la guerra non essendo più primo ministro ed iniziata la guerra fredda poteva sicuramente in una delle sue tante conferenze parlarne. Forse il silenzio fu dettato dal voler nascondere un episodio di cui sicuramente non era fiero, mentre merita particolare attenzione il comportamento di Roosevelt.
Il presidente statunitense ebbe un atteggiamento di accondiscendenza verso Stalin, perché immaginava l’Unione Sovietica avviata verso un’evoluzione democratica in ciò influenzato da molti suoi collaboratori di area liberal che nutrivano simpatia per il comunismo. Inoltre, immaginava un dopoguerra bipolare in cui l’egemonia sarebbe stata spartita fra Stati Uniti e Unione Sovietica con il Regno Unito relegato fra i le nazioni di second’ordine. Il massacro di Katyń in questa ottica diventava un incidente di percorso che non influiva sull’apparente traiettoria democratica intrapresa dalla Russia, che nasceva da una rivoluzione come gli USA al contrario degli altri stati europei. Questo abbaglio ideologico finì per convincere gli statunitensi a tacere sul massacro.
Addirittura, ci fu un tentativo da parte dei sovietici, nel processo di Norimberga, di addossarne le colpe ai nazisti, ma di fronte all’evidenza furono costretti a ritirare le accuse. Negli Stati Uniti ci fu un inchiesta del Congresso negli anni ’50, ma il tutto si arenò per motivi di politica internazionale, quando si doveva firmare l’armistizio della guerra di Corea e non era il caso di inasprire gli animi. L’Unione Sovietica ha continuato a negare l’evidenza anche in seguito fino alla svolta di pochi anni fa con Gorbaciov e Eltsin che hanno ammesso la responsabilità sovietiche a distanza di 50 anni.
C’è anche un risvolto italiano, a dir poco disdicevole della faccenda. Della commissione internazionale istituita dai nazisti faceva parte un italiano, il professor Vincenzo Palmieri, direttore dell’istituto di medicina legale dell'Università di Napoli, che non poté che appurare le evidenti responsabilità sovietiche. Nell’immediato dopoguerra fu perseguitato dal Partito Comunista Italiano che agiva, consentitemi l’espressione di sapore giuridico, in nome e per conto dell’Unione Sovietica. Il professore Palmieri veniva contestato a lezione, accusato di essere un nazista e addirittura alcuni colleghi giunsero a chiederne l’allontanamento.

sabato 18 gennaio 2014

L’inutilità di eolico e fotovoltaico

pubblicato sul Il Legno Storto, il 15 febbraio 2011

di Vito Foschi


In questi ultimi anni si sono create grandi aspettative sulle energie rinnovabili, capaci secondo la vulgata corrente, di produrre energia senza gli svantaggi delle altre fonti. Ma è proprio vero? Ne dubitiamo. Esaminiamo l’eolico e il fotovoltaico.

Le summenzionate energie rinnovabili presentano due gravi problemi. Il primo è che forniscono energia in maniera intermittente e ciò non è un bene. In una rete elettrica potenza erogata e potenza consumata debbono essere in equilibrio, tecnicamente bilanciamento. L’energia elettrica non può essere conservata, ed in ogni momento la quantità prodotta deve essere pari a quella consumata. Se c’è una fonte intermittente, il risultato è che salta tutto come il famoso black out di qualche anno fa. Per farla ancora più semplice vi faccio un esempio casalingo. In casa abbiamo un contatore che ci eroga una potenza di 3kW. Se accendiamo forno elettrico, lavatrice e lavastoviglie “salta”. Non c'è più uguaglianza fra carico e potenza erogata. La stessa cosa succede con l’eolico e il solare. Immettono in rete in maniera discontinua con picchi in più e in meno rischiando di far saltare tutto. Ci sono dei margini di utilizzo. Si stima che in una rete fra il 20 e il 30% può essere potenza intermittente. Per sfruttare appieno questa possibilità in ogni caso è necessario investire nella rete. Già il kilowattore eolico e solare è costoso, se aggiungiamo anche gli investimenti nella rete, il costo aumenta ancora. Un altro esempio di questo bilanciamento è dato dall’uso delle centrali idroelettriche. La notte, i consumi sono ridotti perché la gente dorme e uffici e fabbriche sono chiuse; le centrali termoelettriche non possono fermarsi e lavorano a ciclo continuo e così producono energia in più, che viene usata per azionare delle pompe per far risalire l’acqua negli invasi delle dighe delle centrali idroelettriche che di notte sono ferme. In questo modo, il giorno, quando la richiesta di energia è al massimo, le centrali idroelettriche possono fornire il loro contributo avendo gli invasi pieni.

Il secondo problema, ancora più grande, è che l’energie rinnovabili non permettono la chiusura di altre centrali. Mi spiego sempre con un esempio casalingo. Immaginiamo di mettere i pannelli solari sul tetto di casa per 3 kW. Il 15 agosto con il solleone avremo i nostri bei 3kW e forse qualcosa in più. Il 15 dicembre nevica ed abbiamo zero energia. Come facciamo? Abbiamo sempre bisogno di un generatore tradizionale di 3kW per poter alimentare la nostra casa. Spostate questo ragionamento a livello nazionale e capite che a fronte di tanti pannelli solari e di tante pale eoliche non può essere chiusa neanche una centrale tradizionale. Certamente un po’ di energia rinnovabile la riusciremo ad utilizzare ma gli impianti tradizionali rimarranno lì. La domanda è questa: a fronte di tanti costi e della non chiusura di altre centrali a cosa servono le fonti rinnovabili?

Tra l’altro, visivamente pale e pannelli sono brutti e consumano territorio ed i terreni agricoli diminuiscono sempre più. Voi pensate ad una centrale tradizionale che occupa un terreno grande quanto un’industria e a quanti pannelli servono per arrivare alla stessa potenza erogata. Secondo una stima, un parco solare occupa mille volte lo spazio di una centrale nucleare a parità di energia prodotta. Tra l’altro c’è una grossa differenza fra potenza installata e potenza erogata. Per una bella centrale termica le due grandezze più o meno coincidono un po’ come i cavalli di una macchina. Compro una 100 cavalli e più o meno 100 cavalli mi trovo a secondo di manutenzioni e usura. Per fotovoltaico ed eolico, visto che il sole non sempre c’è ed il vento pure esiste una grossissima differenza fra potenza installata e potenza erogata. Sempre l’esempio casalingo. I 3kW di pannelli sul tetto al 15 agosto sono “veri” al 15 dicembre sotto un manto di neve sono zero.

Per l’eolico si aggiunge anche il problema della rumorosità. L’impatto acustico diventa trascurabile ad un minimo di 300 metri per gli impianti più piccoli fino ai mille (un chilometro!) di quelli più grandi. Precisiamo che per  impatto acustico trascurabile si intende un rumore non distinguibile dal rumore di sottofondo. All’interno di quelle distanze il rumore della pala è udibile e la sua intensità varierà con la distanza raggiungendo alla base dell’impianto i circa 100 dB paragonabili al rumore all’interno di una metropolitana.

Curiosamente chi si batte per non avere grattacieli in città è ben contento di avere tanti mezzi grattacieli in campagna. Che in campagna non ci sia impatto ambientale e non lo sapevamo?